Intervista all’autore Aldo Simeone

Carissimi lettori, dopo aver letto e recensito il bellissimo libro di Aldo Simeone, “Per chi è la notte”, abbiamo avuto il piacere di conoscere e intervistare questo giovane e talentuoso autore. Vogliamo condividere con voi le sue sincere e interessantissime risposte alle nostre domande.

Aldo Simeone è nato a Pisa nel 1982. Si è laureato in Lettere e ha conseguito il dottorato in Studi italianistici. Oggi lavora nella casa editrice scolastica Loescher di Torino, per la quale si occupa dei testi di storia e musica. “Per chi è la notte” è il suo romanzo d’esordio.

Intervistatore: Raccontaci un po’ di te. Quando e come hai capito di voler diventare scrittore? Quando hai capito che tutto questo non era solo un sogno ma che potevi realmente farcela?
Aldo Simeone: Non l’ho ancora capito. Lo giuro. Non lo dico per fingere modestia; è che non mi sento scrittore. Mi spiego: se uno cucina, non è necessariamente un cuoco. Chi ripara il tubo del proprio bagno, non è un idraulico d’emblée. Si diventa scrittori per professione. E forse quello è anche il momento in cui – in molti casi – si smette di esserlo.

I.: Com’è nata in te l’idea di raccontare questa storia e quale messaggio volevi trasmettere?
A. S.: All’inizio più che un messaggio volevo trasmettere una paura: la mia, di quando ero bambino, per il bosco. Poi ho scoperto la Garfagnana per caso, un sabato d’autunno, e intorno a quella paura la vicenda ha iniziato a costruirsi pezzo dopo pezzo. Inevitabile, allora, l’aggancio con la Storia, perché: Garfagnana + paura = guerra.

I.: Se dovessi riassumere in poche parole il significato più profondo del tuo libro cosa ci diresti?
A. S.: Che parla di scelte. Necessarie, dolorose, a volte inconsapevoli. Non ci si pensa abbastanza, ma crescere (vivere, in verità) significa questo: scegliere. Quale porta aprire (e quali lasciare chiuse), cosa fare (e cosa ignorare), dove andare (e dove no)… Non è un’operazione semplice, né un gesto imparziale.

I.: Perché hai scelto di ambientare il libro tra i boschi della Garfagnana? Quei luoghi hanno un significato particolare o dei ricordi importanti per te?
A. S.: Perché il libro ci è nato, in Garfagnana. L’autore non sceglie ogni dettaglio del proprio racconto, ma solo qualcuno, da cui derivano gli altri. Lo spiegava Umberto Eco in un saggio sulla narrazione: l’autore si limita a creare una situazione (per esempio: un uomo che pesca sulla riva di un fiume) e poi (anche lui!!!) compiere una scelta (all’improvviso la corrente trascina un cadavere). Il resto è una catena di conseguenze che dipendono più dal pescatore e dalla corrente che dall’autore. Insomma: Francesco, il protagonista di Per chi è la notte, era garfagnino.

I.: Hai raccontato le vicende accadute durante uno degli eventi più terribili della storia mondiale attraverso gli occhi di un bambino, è stato difficile farlo?
A. S.: Al contrario, è stato più facile. Di certo, io non avrei saputo né potuto raccontare l’esperienza partigiana in presa diretta. Avrei parlato di ciò che non conosco: errore esiziale di ogni narrazione. L’infanzia, invece, l’abbiamo vissuta tutti, e questo mi garantiva anche la disponibilità all’immedesimazione del lettore. Lo sguardo di un bambino era inoltre la lente deformante perfetta per un racconto – come quello che volevo approntare – teso a trascendere la realtà verso il fantastico.

I.: Nel tuo libro vengono presentati diversi personaggi ce n’è uno nel quale ti identifichi di più e, se sì, perché?
A. S.: Sarò banale, ma è Francesco, il protagonista. C’è moltissimo di mio in lui: oltre che le paure, ci accomunano le circonvoluzioni del pensiero, una sensibilità introversa e all’inizio un po’ diffidente, la tendenza, anzi, di più, il bisogno di fantasticare. Il suo sogno era anche il mio alla sua età: costruire una casa sull’albero.

I.: Parlaci del tuo rapporto con i miti, le leggende e la magia in generale. Che ne pensi degli streghi? Da bambino ci avresti creduto? E adesso?
A. S.: Io alla magia credo ancora. «Magia», per esempio, è la narrazione, e del tipo più potente: la magia creativa. Le metafore sono i nostri incantesimi di trasfigurazione. Per levitare, usiamo l’amore e l’amicizia. Tutti i poteri telepatici sono questione di sensibilità: empatia (lettura della mente), carisma (suggestione), intuito (preveggenza).
I miti, le leggende, il folklore sono racconti e quindi li amo tutti, perdutamente. Quello degli streghi, poi, ha una potenza immaginifica straordinaria, perché è ambiguo.  

I.: La mamma di Francesco è una donna molto forte ma per certi versi schiva e di poche parole, non sembra molto affettuosa o disponibile a dare spiegazioni, tuttavia si percepisce che dietro questa apparente corazza di “freddezza” si nasconde la voglia di proteggere le persone che ama. Pensi che questa tua scelta abbia influenzato lo svolgimento del romanzo? Francesco si sarebbe comportato diversamente se la sua famiglia gli avesse dato più spiegazioni?
A. S. Certamente: ogni evento è una catena di cause ed effetti, l’esito muta al variare delle condizioni. Il fatto che le norme e le proibizioni impartite a Francesco siano sempre passate attraverso le leggende popolari e le favole della nonna, o i silenzi della madre, piuttosto che attraverso una formazione distesa e critica, le ha cristallizzate in tabù, rendendogli assai difficile la crescita. Per lui, entrare nel bosco è un orrore e un bisogno anche per questo.

I.: Francesco matura molto nel corso del tuo romanzo, riesce a vincere le sue paure, a capire meglio la realtà e scopre valori importanti come il valore dell’amicizia e la lealtà. Hanno definito il tuo libro un romanzo di formazione e crescita personale era questo il tuo obiettivo? Sei d’accordo con questa definizione?
A. S.: Sì, molto d’accordo. Inoltre mi piace pensare che sia anche un romanzo storico, per quanto non troppo; e un esempio di realismo magico, per quanto non esattamente. Un po’ gotico, un po’ horror, un po’ fantastico, un po’ psicologico. Insomma, vorrei che al lettore il romanzo sembrasse trascorrere attraverso i generi come il protagonista attraverso il bosco.

I.: Per te “Per chi è la notte”?
A. S.: Per chi ha il coraggio di affrontarla. Io da piccolo ero paurosissimo. La notte mi dava i brividi; pensavo che il mondo ne venisse cancellato e non mi tranquillizzava affatto vederlo riapparire ogni volta il giorno successivo. Ci vuole molta immaginazione per crederlo. In fondo (insegna Hume) è più logica la paura dei bambini che la fiducia un po’ sbrigativa degli adulti.

I.: Quali sono le tue passioni? Ti piace leggere? Quali sono i tuoi autori e libri preferiti? Credi che questi in qualche modo abbiano influenzato il tuo stile narrativo?
A. S.: Ho tante passioni. La principale è essere appassionato. Sono convinto che una delle maggiori virtù umane sia la curiosità. Essere curiosi significa anche essere privi di preconcetti, disponibili all’ascolto, al confronto, al cambiamento.
La lettura è in fondo una delle più tipiche forme di curiosità umana. In un certo senso anche il pettegolezzo… Se non mi sento uno scrittore, senz’altro mi sento un lettore: l’unico mestiere in cui, anziché essere pagati, si è disposti a pagare.
In fatto di libri, i miei gusti sono molto cambiati nel tempo. In questa fase, amo (e invidio) soprattutto due autori: Sacha Naspini e Jeffrey Eugenides. Ma fra i maestri che mi hanno più influenzato ci sono certamente Stephen King ed Eraldo Baldini. Considero fondamentale per la mia scrittura anche un fumettista: Zerocalcare. Il suo linguaggio «pop-metaforico» è per me fonte inesauribile d’ispirazione.

I.: Che consigli daresti agli aspirati autori di libri? Quali sono i tuoi “trucchi del mestiere”?
A. S.: Agli aspiranti scrittori, Stephen King consigliava di scrivere. E aveva ragione. Io aggiungo: leggere. Leggere moltissimo. Prima di tutto, leggere. Per quanto riguarda i trucchi del mestiere, ne voglio dare uno che vale per tutti i mestieri possibili: imitare. È così che, almeno fino al Romanticismo, si diventava artisti: entrando in bottega e imitando (o anzi addirittura copiando) l’opera dei maestri. Imitare non è per niente un’operazione servile. Da piccoli abbiamo imparato a camminare e a parlare imitando. I giapponesi sono diventati grandi nel mondo copiando le tecnologie occidentali. Per imitare ci vogliono umiltà e intelligenza: l’umiltà di disporsi a imparare, l’intelligenza di scegliere i maestri migliori.

I.: Stai già pensando a un prossimo libro?
A. S.: A dire il vero l’ho già terminato, ma da mesi sono impantanato nell’attività per me più faticosa: la revisione. Spesso si tratta di lavorare sullo stile, alleggerendo la scrittura da un eccesso di retorica. In prima stesura, infatti, tendo ad avere la mano pesante. Voltaire diceva: «Scrivo una lettera lunga perché non ho tempo di scriverne una breve». Sembra un paradosso, e invece è logica stringente: la sintesi è sempre frutto di faticosa elaborazione. Per essere concisi, ci vuole tempo. Ecco, ora che ci penso, il trucco del mestiere che suggerisco a me stesso per scrivere è di cancellare, di cancellare parecchio.

Rinnoviamo ad Aldo i nostri ringraziamenti e gli porgiamo i più sinceri complimenti per la sua opera, aspettando con ansia di poter recensire il suo nuovo romanzo.

Intervista a cura di Manuela Morana

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