Recensione: “Notte a Caracas” di Karina Sainz Borgo

Notte a Caracas

Karina Sainz Borgo

Traduttore: F. Niola

Editore: Einaudi

Collana: Einaudi. Stile libero big

Anno edizione: 2019

In commercio dal: 30 aprile 2019

Pagine: 208 p., Brossura

EAN: 9788806241780

Recensione a cura di Rosa Zenone

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Adelaida Falcòn è stata colpita da un profondo lutto, la scomparsa dell’adorata madre. Ella si trova dunque alle prese con il consueto iter funebre, se non fosse che la situazione già dolorosa di per sé è aggravata da un ulteriore fattore: quello di vivere nella tumultuosa capitale venezuelana, Caracas. Lo scorrere della sua esistenza precaria, fatta da osservazioni sul presente e rimembranze del passato, viene ulteriormente sconvolto. Un giorno rientrando a casa si rende conto di non riuscire a infilare la chiave nella toppa, la serratura è stata sostituita. Espropriata del proprio domicilio e dei propri oggetti personali, in perenne bilico con la morte, lotterà, al di là delle proprie aspettative, per la vita, tentando di appropriarsi di una nuova casa e di una nuova identità….

“Non ho mai concepito la nostra come una grande famiglia. La famiglia eravamo mia madre e io. Il nostro albero genealogico cominciava e finiva con noi. Insieme formavamo un giunco, o una specie di aloe vera di quelle che riescono a crescere ovunque. Eravamo piccole e piene di venature, quasi innervate, forse per non soffrire se ci strappavano un pezzo o anche tutta la radice. Eravamo fatte per resistere. Il nostro mondo si basava sull’equilibrio che eravamo in grado di mantenere insieme. Il resto era qualcosa di eccezionale, di aggiuntivo, e per questo prescindibile. Non aspettavamo nessuno, ci bastavamo a vicenda.”

Il legame tra la protagonista e la madre è strettissimo, simbiotico. Tale caratteristica è evidenziata anche dal possesso dello stesso nome: Adelaida Falcòn, che porta a identificarle l’una nell’altra. La madre, oltre a essere l’asse portante della vita della figlia, rappresenta per la stessa le proprie radici, radici attecchite a Caracas. Anche in seguito alla sua morte, la protagonista richiama tale funzione.

“Quando arrivammo al cimitero, il vano con le due fosse era già aperto. Una per lei, l’altra per me. Mia madre aveva comprato il lotto anni prima. Guardando quel buco di argilla pensai a una frase di Juan Gabriel Vásquez che avevo letto qualche settimana prima in una bozza da correggere: «Si è del posto dove sono sepolti i propri morti». Osservando il prato falciato attorno alla sua tomba, capii che il mio unico morto mi legava a una terra che espelleva i suoi con la stessa forza usata per inghiottirli. Non era una nazione. Era un tritacarne.”

Le sue radici la tengono ancorata a quella terra ormai dilaniata, dove imperversa la violenza e la corruzione. Con profondo e doloroso acume le pagine testimoniano la disperazione dilagante causata dal regime dittatoriale del “Comandante”. Seppure all’interno del libro non vi sono menzioni esplicite, si coglie il riferimento alle vicende politiche passate e presenti che investono ormai da lungo tempo il Venezuela. L’intero libro è percorso dalla morte che incombe, pronta a spuntare dinanzi in qualunque momento.

“Io pensavo soltanto al momento in cui il sole sarebbe calato e avrebbe cancellato la luce sulla collina dove avevo lasciato mia madre sola. Allora morii di nuovo. Non sarei mai resuscitata dalle morti che quel pomeriggio si erano accumulate nella mia biografia. Quel giorno divenni la mia unica famiglia. L’ultima parte di una vita che ben presto mi sarebbe stata strappata a colpi di machete. A ferro e fuoco, come tutto quel che avviene in questa città.”

La voce narrante è quella della protagonista che racconta le proprie vicissitudini. La sua narrazione è all’interno di lunghi flussi di coscienza che non di rado toccano anche ricordi del passato. Ella ripercorre e rivive così la propria infanzia e la propria madre. Le sue rimembranze hanno luogo sia nella capitale che a Ocumare, paese materno dove spesso si recano a visitare le due zie. I ricordi che tornano alla mente stimolano una serie di percezioni sensoriali suscitate dalla bellezza del Venezuela. Gli odori, i sapori e i posti che la rendono una terra affascinante. Un paese che si esaltava nella propria bellezza e che aveva riposto speranza nella propria promessa di progresso, terra di grandi opportunità anche per tutti coloro che vi erano immigrati dai diversi paesi del mondo. Ma tutto ciò che era e che poteva essere risulta spazzato via dalla realtà cruenta documentata nel romanzo.

“La gente correva qua e là nel suo pandemonio personale, in una confusione di polvere da sparo, morte e follia. Qui balliamo e ci strofiniamo ai morti. Li sudiamo, li espelliamo come demoni o escrementi. Finivano nelle fosse biologiche, nella spazzatura che arde facilmente, come se fossimo fatti di un materiale che vale poco.”

Nel trambusto e nella miseria generale la protagonista vive il proprio inferno personale, attanagliata nella sua profonda solitudine. Il confine tra vivi e morti diventa sempre più sottile, un’aria mortifera incombe perennemente sulla sua esistenza. Nessuna via di uscita sembra essere riservata ad Adelaida, la sua vita appare come attesa della morte che, per quanto posticipata, giungerà a breve. Ma la morte della madre in quel frangente, sembra aver reciso le sue radici.

“Se si appartiene al luogo in cui sono sepolti i propri morti, qual era il mio in quel momento? Possiamo seppellire qualcuno soltanto se ci sono pace e giustizia. Noi non avevamo né l’una né l’altra. Per questo non giungeva il riposo, e meno che mai il perdono.”

La consapevolezza di essere ancora in vita, la conduce ad aggrapparsi alla stessa e a voler lottare in tutti i modi per non morire.

 “Aurora Peralta era un cadavere e io no. Adelaida Falcón, la sopravvissuta. Eravamo unite da uno stame invisibile. Da un cordone ombelicale imprevisto tra vivi e morti.”

Il clima che imperversa a Caracas può essere riassumibile nella massima plautina <<Homo hominis lupus>>, in una sorta di stato di natura dove gli individui ricercano solo i mezzi per la propria sopravvivenza, anche a discapito degli altri. L’unica via di fuga che si para davanti ad Adelaida è adattarsi al clima imperante abbandonando la propria vita e rinascendo in una nuova. Per sopravvivere è necessario tentate di abbandonare un paese che già da tempo l’ha abbandonata.

“Quel giorno capii di che cosa sono fatti certi addii. Il mio, di quel pugno di merda e viscere, di quel territorio finito, di quel paese al quale non potevo restituire neppure una lacrima. Salii sull’aereo e presi posto. Spensi il telefono e insieme i miei nervi. Guardai dal finestrino. Era buio, e una corrente elettrica di miseria e bellezza attraversava la città. Caracas sembrava accogliente e insieme terribile, il nido caldo di un animale che ancora mi guardava con gli occhi di una serpe selvatica in mezzo all’oscurità. Soltanto due lettere separano «partire» da «partorire»”

Notte a Caracas travolge con un flusso di emozioni carico come un macigno, non vi è una parola superflua né mancante. Le pagine fanno trapelare tutta l’ininterrotta tensione vissuta dalla protagonista, che come un vortice trascina dentro sé il lettore. Un romanzo da leggere tutto d’un fiato, seppure le vicende narrate lo spezzano. Un libro carico d’amore e rancore verso una nazione dilaniata da troppo tempo. Leggerlo significa udire la voce straziante che vi urla all’interno denunciando ciò che è successo e succede dall’altra parte del mondo, trasmettendo forte commozione ed empatica partecipazione.

Karina Sainz Borgo

Karina Sainz Borgo nasce a Caracas nel 1982 e vive in Spagna da dodici anni. È autrice di alcuni saggi politici e scrive su «El Nacional» ed «El Mundo». Notte a Caracas è il suo primo romanzo ed è in corso di traduzione in 22 paesi.

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