Recensione: “A bocca chiusa” di Stefano Bonazzi

Buongiorno Lettori,
in questo caldo agosto ho il piacere di consigliarvi la lettura di un thriller duro e crudele dalle cui pagine non riuscirete a staccarvi: “A bocca chiusa” di Stefano Bonazzi.

A bocca chiusa

Stefano Bonazzi

Editore: Fernandel
Anno edizione: 2019
In commercio dal: 24 gennaio 2019
Pagine: 256 p., Brossura
EAN: 9788898605910

Recensione a cura di Francesca Simeoni

Un nonno e un nipote. Due età diverse, due anime opposte costrette a condividere uno spazio comune in un torrido agosto. L’adulto è un uomo colpito da una malattia invalidante che lo rende una belva in gabbia astiosa e iraconda che cova una violenza sorda, continua, ininterrotta. Una brutalità che trova sfogo su quel bambino di dieci anni costretto a restare in casa con lui e a non frequentare i suoi coetanei. Una convivenza forzata dalla quale non può che scaturire un odio condiviso che finisce con il germogliare e sedimentare anche nel giovane. Poi, la vendetta. Un desiderio irrefrenabile, che non accetta compromessi ma che deve trovare anche la vittima giusta contro cui rifarsi di quella rabbia maturata a dismisura, soprattutto ora che quella persona che lo ha allevato trattandolo come una bestia è morta.

“Avevo sei anni quando nonno le spezzò la mano. Ero in salotto, seduto davanti al grande tavolo di legno… Nonno le prese il braccio destro per il polso, lo ruotò e lo sbatté contro la vetrata della porta che dava sulla sala da pranzo dov’ero seduto. Fu un gesto rapido. Secco. Quasi mi parve di udirlo, quel lieve crack… Nonna non mi guardò. Non urlò. Non disse niente. Strinse forte le labbra. Si tenne tutto dentro. Io distolsi lo sguardo… Lei ritrasse la mano delicatamente e l’avvolse in un fazzoletto… Corse in bagno. Sentii il rumore dell’acqua scorrere e mescolarsi ai singhiozzi. Lui invece rimase lì, immobile. Ansimando come un animale selvatico.”

Così inizia uno dei libri più intensi e sconvolgenti che io abbia mai letto, una storia a tratti persino brutale che ha come protagonisti un nonno e un nipote.

Non ci sono nomi in questo romanzo, né indicazioni temporali o spaziali: solo l’incessante scorrere del tempo e la narrazione di una crudeltà senza limiti.

È la storia di un ragazzino di dieci anni che vive solo con la sua mamma poiché il padre li ha abbandonati al compimento del suo secondo mese di vita e che si trova costretto a trascorre le vacanze estive a casa del nonno.

È lui che, in prima persona, ci racconta la sua storia nella prima parte di questo romanzo e lo fa quasi come se scrivere quanto accaduto potesse aiutarlo ad esorcizzare il suo profondo dolore:

“Se parlare è difficile, scrivere lo è ancora di più. Non si sa mai come incominciare, né dove si andrà a finire. In realtà non si dovrebbe né cominciare né finire, perché le cose non hanno mai un principio e una fine. Si diramano in tutti i sensi, e ad una segue sempre un’altra e un’altra ancora, in tutte le direzioni: non puoi stargli dietro con la scrittura. Un mezzo per star dietro a tutto, gli uomini non l’hanno ancora inventato. Io scrivo una parola, poi un’altra, fino a comporre una frase, ma a dire il vero quelle sono solo sequenze di lettere, convenzioni. Chi le leggerà non capirà mai cosa volevo davvero esprimere scrivendole. Allora cancello tutto e ricomincio da capo.

Il nonno è un uomo costretto da una malattia invalidante a restare a riposo e ad abbandonare l’unico lavoro che abbia mai saputo fare: il camionista. Questa condizione esaspera la sua rabbia trasformandola in una cieca ira che quasi inevitabilmente viene riversata sul nipote.

“Nonno non si fidava… di nessuno. Odiava tutti. L’unico ancora in grado di sedare la sua rabbia ero io. […] Era testardo. Fiero. Brusco. La sua sola presenza metteva in difficoltà tutti, anche se non diceva nulla. Non aveva amici, non aveva ideali, non aveva obiettivi, solo rabbia e ricordi scomodi. Mamma diceva sempre che la causa di quel suo brutto carattere era la vita, le troppe porte sbattute in faccia, le persone che l’avevano tradito, storiacce che non dovrebbero capitare a nessuno, tantomeno a un ragazzo.»

E lui, il nipote che aveva da tempo compreso che il nonno era una persona pericolosa, ne ha sempre più paura

“Non era la malattia. Non era l’ernia. Io sapevo cos’era. Nonno mi aveva sempre spaventato, anche quando era in salute. Avvertivo quel muro invisibile di odio che lui alzava contro ogni cosa. Era diverso dagli altri nonni. Non mi aveva mai portato al parco a giocare con i compagni. Parlava raramente e, quando lo faceva, le sue non erano frasi da vero nonno. Lui era un orco, ossessivo e indecifrabile. […] Perché io vedevo quello che c’era dentro di lui. Un seme nero, marcio, che puzzava di morte. Lui di quel nero era impregnato. Ogni giorno cresceva un po’ di più perché ogni giorno si allontanava dalle cose che lo avevano fatto stare bene. Si allontanava dalla vita. Perché mamma non se ne accorgeva? Perché nonna faceva finta di nulla? Perché nessuno diceva niente? Io sapevo che quel seme era schifoso e faceva vedere cose che non si dovrebbero vedere. Faceva pensare cose sbagliate. Cose scure e fastidiose. Cose che non si potevano tenere in mano perché scivolose e ricoperte di spine. Cose che laceravano la carne. Cose che si facevano strada nelle ossa, che scavavano come tarme. Cose con cui non dovrebbe avere a che fare un bambino di dieci anni.”

Nonostante questo, il ragazzo si trova costretto a condividere intere giornate con quell’essere – ogni altro appellativo risulterebbe a mio parere eccessivamente “umano” – in quella che sembra la più lunga e calda estate di sempre: trascorre le sue giornate rintanato su un tappeto rosso, con l’unica compagnia di un cesto di Lego, unica amica la sua immaginazione.

“così io trascorrevo i tre mesi estivi a giocare su un tappeto infeltrito a scacchi rossi. Oltre a me c’era una cesta enorme, su quel tappeto. Era la mia cesta delle costruzioni. Lì c’erano i mattoncini colorati e tutto il necessario per sopravvivere a quelle giornate interminabili. All’epoca si chiamavano Lego ma sono convinto che si chiamino allo stesso modo anche oggi, sempre che esistano ancora e che qualcuno abbia voglia di giocarci. Erano di forme, dimensioni e colori tutti diversi. Ci si poteva costruire un intero mondo, con quelli. Erano la mia passione e la mia specialità. Barre rettangolari, cubi, aste, basi, piedistalli. Poi oggetti più particolareggiati, per i dettagli. Cilindri, manopole, ruote, pistoni. Tutti componibili tra loro in ogni modo possibile. Bastava solo un po’ di fantasia e di tempo, per divertirsi”.

Nessuno si preoccupa per lui, la madre parrucchiera e la nonna, donna delle pulizie, stanno tutto il giorno fuori e al loro rientro sembrano fare di tutto per ignorare la sua solitudine e la sua angoscia: la paura dell’orco è più forte della naturale preoccupazione per le sorti del loro ragazzo!

Ma il protagonista è pur sempre un ragazzino di dieci anni e il desiderio di ribellione è una componente quasi inevitabile del suo essere, lui smania incontrare coetanei, giocare a pallone, allontanarsi dal quella prigione che è la casa del nonno e la sua presenza costante ed ingombrante.

Del tutto inaspettatamente per il ragazzo e per noi che lo stiamo accompagnando, arriva Luca un vicino di casa che porterà un effimero sollievo nella quotidiana follia del protagonista.

Questa amicizia viene però vista dal nonno come una gravissima disubbidienza e viene aspramente punita.

Il tappeto rosso viene sostituito dal balcone in cui il protagonista viene rinchiuso senza acqua e cibo e con l’unica compagnia dei suoi mattoncini.

Ma il caldo è insopportabile e la paura toglie il respiro: la situazione precipita vorticosamente

“Il confine era stato varcato. Mi ero spinto oltre e non potevo più tornare sui miei passi. Ai suoi occhi adesso anch’io ero ufficialmente uno di loro. Un mediocre. Un parassita. Una pustola marcia da schiacciare. Adesso puzzo come loro e lui non riesce più a sopportare quel fetore. La casa si sta impregnando. Le pareti, le piastrelle, l’intonaco: tutto quanto puzza di me. Puzza di codardo. Poi c’è anche il discorso dei soldi. Adesso che sono diventato uno di loro potrei rivelare il posto dove lui li tiene nascosti, anzi, probabilmente è questo il loro vero obiettivo, non io. Sì, giusto. Io sono solo un mezzo. Io non sono così importante, ma i soldi sì, quelli sono importanti. I soldi sono l’unica cosa in grado di fare la differenza tra un uomo e un fallito. Già lo tengono d’occhio da una vita. Adesso che sono diventato come loro mi travieranno con uno dei loro marmocchi. Uno che si fingerà mio amico, il mio migliore amico. Mi distrarrà, mi farà sentire importante. Poi mi sedurrà. Io che sono sempre stato invisibile agli altri, avrò il mio momento di gloria. Basta così poco per raggirarmi. Poi un giorno, mentre lui riposerà, lanceranno il loro segnale. Io scatterò a comando come una bomba a orologeria. Aprirò la porta. Li farò entrare in silenzio, come lucertole. Ficcheranno il naso ovunque. Setacceranno la casa in cerca dei suoi risparmi. Porteranno via tutto quello che era riuscito a mettere da parte con una vita di rinunce e sacrifici. Non si fermeranno davanti a niente, come cavallette sul raccolto. Tutto gli ruberanno, tutto quello che ha. Come quando era giovane. Lo ricacceranno nel sottoscala. Io li aiuterò di certo. Sono debole, ormai. Come mia madre. Come loro. Come tutti. Ho tradito la sua fiducia”

Nonostante tutto e dopo un doloroso quanto inaspettato finale quell’estate finisce, l’adolescenza passa e nell’ultima parte del libro il ragazzino di dieci anni dolce e indifeso lascia il posto ad un adulto disturbato, assuefatto ad ogni tipo droga, ad ogni dolore e a tutto il male che lo circonda, che perde la capacità di raccontarsi ma si lascia narrare sino del definitivo epilogo del romanzo. 

A Bocca Chiusa è un vero e proprio pugno nello stomaco, un racconto così ben strutturato che trasporta inevitabilmente chi lo legge in un vero e proprio incubo: la paura, la rabbia, il dolore, la solitudine e persino l’afoso caldo estivo sono talmente reali che si patiscono mentre si legge, si percepiscono in maniera vivida.

Io stessa, che ho letto d’un soffio le pagine di questo romanzo, ho combattuto con il terrore per questo nonno così lontano da quelli che ho tanto amato, con il caldo e la noia che attanagliavano il protagonista, con la sua paura che quasi toglie il fiato, con un orrore che nessuno dovrebbe conoscere; ho avvertito anche fisicamente la solitudine del protagonista, il suo dolore e la sua paura; Stefano Bonazzi ha egregiamente descritto il male dietro le rassicuranti spoglie di un nonno.

La scelta di non indicare nomi, tempi o spazi poi rendono la storia quasi eterna: il male può nascondersi dietro la più banale normalità, dietro la figura più rassicurante del mondo in ogni tempo ed in ogni luogo.

Io non posso fare altro che consigliarvelo.

Stefano Bonazzi
nasce a Ferrara dove vive e lavora come grafico pubblicitario realizzando composizioni e fotografie ispirate al mondo dell’arte surrealista. Le sue opere d’arte sono state esposte, oltre che in Italia, a Londra, Zhengzhou, Miami, Seul e Monaco. A bocca chiusa è il suo romanzo d’esordio, uscito nel 2014 da Newton Compton; nel 2017 ha pubblicato per Fernandel il romanzo L’abbandonatrice, molto apprezzato dal pubblico e dalla critica.

Materiale fornito dall’autore

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