Recensione: “Ai sopravvissuti spareremo ancora” di Claudio Lagomarsini

Oggi ho il piacere di presentarvi e consigliarvi il romanzo di esordio di Claudio Lagomarsini: “Ai sopravvissuti spareremo ancora”, il coinvolgente racconto di un’estate lontana che ha cambiato per sempre la vita di tutti coloro che l’hanno vissuta.

Ai sopravvissuti spareremo ancora

Claudio Lagomarsini

Editore: Fazi
Collana: Le strade
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 23 gennaio 2020
Pagine: 421 p.
EAN: 9788893256407

Recensione a cura di Francesca Simeoni

Un giovane è costretto a tornare nel paese d’origine per vendere la casa di famiglia: è un ritorno doloroso così come lo è il ritrovamento di cinque quaderni scritti molti anni prima dal fratello maggiore Marcello. Leggendoli per la prima volta, il ragazzo, ormai uomo, ripensa all’estate del 2002 quando i due fratelli vivevano ancora insieme, con la madre e il compagno della donna, soprannominato Wayne. La loro casa era stretta tra quella della nonna materna e quella di un uomo, soprannominato il Tordo. Nei quaderni, Marcello racconta molte cose di quell’estate: le cene all’aperto, le discussioni furibonde tra il Tordo e Wayne, la relazione amorosa tra la nonna e il Tordo, il rapporto conflittuale tra la madre e la nonna. Fra i vari episodi riportati nel diario, uno in particolare sarà quello che scatenerà la serie di eventi che porteranno all’inaspettato e drammatico epilogo. Con uno stile perfettamente calibrato e una lingua che mescola tratti eleganti a termini più colloquiali, Claudio Lagomarsini riesce a svelare il crepuscolo di un mondo patriarcale, sessista e arretrato, fotografando dall’interno una società destinata a sparire, eppure ancora così rappresentativa del nostro paese. Tra cene in cortile, litigi per un orto e comportamenti retrogradi, Ai sopravvissuti spareremo ancora racconta la quotidianità di un ambiente provinciale piccolo e meschino e l’angoscia di chi con questa quotidianità non riesce più ad avere a che fare. L’attaccamento ai confini della proprietà privata e l’atmosfera oppressiva del nucleo abitato al centro della storia sono il cuore di questo notevole romanzo d’esordio che affronta il dramma di un ragazzo che, pur dotato di un’acuta sensibilità, nulla potrà contro la grettezza e la distanza della famiglia che gli è toccata in sorte.

“Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi. È toccato a me, alla fine, prendere l’aereo, passare nove ore tra due sconosciuti e noleggiare un’auto da guidare stordito di sonno, per venire qui. C’è da vendere la casa, e la ragazza dell’agenzia dice che il momento è propizio. … Dopo la malattia di suo marito, mia madre si è trasferita con lui in un appartamento più piccolo…È stata lei a insistere perché mi occupassi delle pratiche necessarie alla vendita. Non vuole saperne più di niente, neanche dei soldi. A vendita conclusa posso tenere quello che voglio e lasciarle quel che basta per la sopravvivenza, ha detto. Tornare nella stradina che porta alla vecchia casa, oggi, mi ha dato un brivido sinistro. … Mentre cercavo le chiavi giuste nel mazzo, ho guardato verso la casa di Carlo e poi verso quella in cui abitava mia nonna. Insieme alla nostra, formano un ferro di cavallo con al centro il parcheggio. Percorrendo un vialetto ci si immette in un reticolo di stradine. Le case sono tutte uguali: l’intonaco color pesca, la siepe di pitosfori, il ghiaino bianco, omogeneo, abbacinante”

Un giovane è costretto a tornare nel paese della sua infanzia in Toscana per vendere la casa di famiglia.

Tra i suoi compiti vi è anche quello di liberare la casa da tutto ciò che di personale e legato alla propria famiglia la stessa ancora contiene, per renderla appetibile ai futuri acquirenti.

Ed è così che il nostro protagonista ritrova cinque quaderni scritti molti anni prima dal fratello maggiore Marcello.

“Tra le scatole ce ne sono diverse con la scritta «VARIE». Non avrei nessuna voglia di aprirle. Faccio le mie croci con rabbia. Ne apro una su cui si posa un moscone che è entrato quando ho spalancato le finestre. Mi capitano in mano una calcolatrice, un righello, l’adattatore di una presa elettrica per l’estero, residuo di una vacanza. Sul fondo ci sono alcuni piccoli quaderni Monocromo, ognuno di un colore diverso. Li conto, sono cinque. Prendo in mano il primo, inizio a sfogliarlo ma fatico a leggere. Non riesco a decifrare quasi nessuna parola, è una grafia veloce che a una prima occhiata potrebbe essere arabo, tutta linee orizzontali e punti. Può mai essere che… Mi ci è voluto qualche secondo. Quando riconosco la grafia piccola e nervosa di Marcello il cuore mi balza in gola.”

Subito comprende che quello che ha tra le mani è il manoscritto del romanzo di cui Marcello tanto aveva parlato in quella lontana estate del 2002, ma che nessuno aveva mai letto

Quell’estate, l’estate della mia terza superiore, stavo tutto il giorno al mare. Non ho ricordi precisi, distinti. Mi resta in mente, come in un video mandato al fast forward, una lunga sequenza di sbornie, scherzi, pallonate, gavettoni, uscite con gli amici, baci con troppa saliva e sigarette fumate dietro alle cabine del Bagno Universo. Marcello non era come noi. Molti, a scuola, dicevano o lasciavano intendere che era strano, mio fratello: più inquieto e, allo stesso tempo, più posato di me. Stava a casa, preferiva rimanere bianchiccio, e leggeva, studiava, scriveva cose che non faceva vedere a nessuno. Distanziati di appena diciotto mesi, non andavamo d’accordo. Era l’età in cui i fratelli comunicano, più che altro, a cazzotti, calci e parolacce. Era difficile che facessimo qualcosa insieme e, se capitava, finivamo puntualmente per stuzzicarci e litigare. Ma per qualche ragione, quando mi raccontava del suo romanzo, lo stavo ad ascoltare senza fare l’idiota. … Di quello che lui chiamava il suo romanzo, quindi, conoscevo finora le speranze e le buone intenzioni: le note di regia.”

Inizia così il racconto di quella lontana estate trascorsa dai fratelli con la madre e il suo compagno, soprannominato da Marcello Wayne, l’anziana nonna e un vicino assolutamente sopra le righe – che il lettore conoscerà come il Tordo – che si trova costretto, per dovere coniugale, a prendersi cura della moglie paralitica

Marcello ci racconta le lunghe giornate estive che passano lente e tutte uguali tra un film in tv e lo studio, le cene all’aperto tra le risate e i racconti sconci del Tordo, le innumerevoli discussioni tra il costui  e Wayne per la gestione di un piccolo orticello che hanno avuto la malaugurata idea di coltivare assieme, la tresca amorosa tra la nonna e il vicino, che pensano segreta ed in realtà nota a tutti, il difficile rapporto tra quest’ultima e la mamma – così simili e così incompatibili -, i primi turbamenti amorosi di Marcello per una bellissima compagna di scuola, il rapporto con il fratello così diverso da lui e così incomprensibile.

Il racconto si dipana poi in ulteriori flash-back sulla vita dei protagonisti, armoniosamente legate ai racconti di fatti quotidiani in una vorticosa discesa verso un finale tanto doloroso quanto inaspettato.

Per quanto mi riguarda Claudio Lagomarsini ha colpito nel segno con questo romanzo, ben scritto e articolato, con una trama strutturata e per nulla banale, con uno stile curato ed assolutamente centrato rispetto al racconto.

Ciò che ho particolarmente apprezzato è stata la costruzione dei personaggi, così abilmente descritti e resi vivi che non si può fare a meno di amarli od odiarli, di considerarli persone reali, propri vicini di casa; nonché la capacità dell’autore di nascondere sino all’ultima riga il finale di questo sorprendente racconto: mai avrei pensato che quella estete così familiare seppur così difficile potesse avere un tale epilogo.

Vi consiglio di leggere questo romanzo, vi accompagnerà in un viaggio nella memoria di cui non vi pentirete

“Di fianco al gazebo c’era un muretto basso, che riconosco solo adesso, tutto coperto di parietaria ed erbacce. Colgo un fiore, ne prendo altri due. Seguendo la traccia gialla delle corolle, finisco vicino al muretto. Qui intuisco un disegno, una placca. Sposto le foglie lunghe e taglienti di un’erba infestante. Ricavo una cornice verde per quella che risulta essere una targa di alluminio. Riconosco anche questa: è la targa che Nedo portò al Tordo dall’America. Quando leggo, penso che tra i sopravvissuti ci sono anch’io.”

Materiale fornito dalla Casa Editrice

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